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Di rosette del supermercato, memoria associativa, stazioni della metropolitana e Dragonball.



L’altro giorno ero in ritardo.

Scendo di corsa le scale del palazzo e, più o meno a metà, vengo investita, travolta, bloccata, immobilizzata e infine rapita. Da un odore.

Mi bracca. Inciampo. Mi sbalza. E in una frazione di secondo mi trovo davanti al banco gastronomia del supermercato del paese dove vivevo da bambina.

Sto lì, in piedi, con il mio numeretto e vedo – visualizzo – la teglia di rosette al prosciutto e formaggio che mia madre ci comprava da bambine.

Poi, nell’ordine, mando un vocale a mia sorella che mi risponde “cazzo, quelle rosette me le sogno di notte” e, visto che tanto sono già in ritardo, mando tutto in vacca e vado al supermercato a compare gli ingredienti per fare la ricetta.

Mi direte: e perché non hai comprato direttamente le rosette?

Per varie ragioni: la prima è che sono passati quasi trent’anni dall’ultima volta che le ho mangiate. La paura mi assale. Come quando torni in un luogo del cuore da cui manchi da anni e lo trovi cambiato. Tu l’hai custodito, accudito nella tua mente e lui è andato avanti senza di te. E non è la sensazione di tradimento quella che voglio provare ora.

La seconda è una ragione pratica. Il supermercato dove andavo da bambina è troppo lontano, va bene il ritardo ma… non esageriamo.

E infine la terza: per amore di sfida. Si può ricostruire un ricordo, un odore – un sapore –  e, con essi, il loro potere evocativo?

 

Avrà pervaso anche voi, passando davanti al portone aperto di un vecchio palazzo, quella malinconia umida e pulita come l’odore dell’androne di casa di vostra nonna quando aveva appena lavato le scale. Vi sarà capitato di sobbalzare incrociando qualcuno che usa lo stesso detersivo da bucato di quella cara amica che avete perso di vista. O di prendere un libro da uno scaffale e ritrovarvi con il naso tra le pagine a riempirvi i polmoni di quel mix perfetto di fumo e dopobarba che c’era nello studio di vostro nonno.

Memorie nitide che non ricordavate di avere e che basta un minuscolo indizio a riportarle prepotentemente a galla.

Be’, non siamo gli unici. In effetti, la letteratura e il cinema sono pieni di esempi.

Ce lo racconta Muriel Barbery nel suo Estasi Culinarie in cui Monsieur Arthens, severo e temuto critico gastronomico sul letto di morte, cerca nei cassetti della memoria il sapore che vorrebbe riassaggiare prima di lasciare questo mondo.(1)

Ce lo dicono le lacrime di Anton Ego in Ratatouille. E ce lo racconta Proust con le sue inflazionate madeleine. (2)

Ma cosa è successo nella mente di tutte queste persone (e  nella vostra, e nella mia) per suscitare quella reazione emotiva così repentina e ingovernabile?

 

La risposta ce la dà la neurogastronomia. (3)

 

L’odore è uno dei principali responsabili del gusto. Ha due vie d’accesso al nostro corpo. Una è il naso (quando inaliamo le molecole volatili che colpiscono i recettori presenti sui peli) e l’altra è la cosiddetta via retronasale. Con la masticazione, le molecole odorose si sprigionano e risalgono nel naso dall’interno della bocca consentendoci di percepire l’odore “in stereo”. Vi basti pensare a quando mangiate con il raffreddore. Se il gusto del cibo arrivasse a noi solo tramite il suo sapore, lo sentiremmo nitidamente anche quando il naso è ko. Ma evidentemente non è così.

 

L’odore dà origine ad una reazione a catena di microimpulsi che risalgono su, nel cervello, fino alla corteccia (olfattiva), dove formano un collage di immagini olfattive. La stessa cosa avviene per gli stimoli tattili, uditivi e così via.

Questi, inviati e memorizzati nelle rispettive parti del cervello, formano l’immagine del sapore.

L'immagine del sapore viene così registrata nella memoria, ma come – e come mai – viene richiamata producendo reazione - anche emotive - così forti?

Le colpe, o i meriti, sono dell'ippocampo, nodo di coordinamento centrale per i ricordi, e dell'amigdala coinvolta nell'apprendimento e nel rafforzamento associativo degli stimoli.

 

Questo meccanismo noto come memoria associativa (particolarmente attivo nella corteccia olfattiva) è programmato per richiamare il tutto a partire da una singola parte.

 

L’immagine del sapore è dunque metonimica rispetto al tutto del ricordo. Basta un singolo tassello per trovarci davanti l’intero puzzle. Basta il profumo delle rosette per ritrovarmi fisicamente nel caos del supermercato aspettando il mio turno con l’acquolina in bocca.

 

Nel 2009, quando vivevo a Madrid e mi occupavo di allestimenti di punti vendita, non esistevano le piattaforme di streaming, e Blockbuster  (ndr: colosso del noleggio di vhs e dvd) aveva negozi anche nelle stazioni della metropolitana.

Le persone scendevano di corsa le scale verso il treno, diretti a casa dopo una giornata di lavoro. Come convincerli a prendere la corsa successiva e fermarsi a noleggiare un film?

Con l’odore di pop corn. Quel profumo di burro caldo misto all’odore dolce del mais li attirava come un pifferaio magico all’interno del corner. Giravano, sceglievano il film e si guardavano intorno in cerca di quelle nuvolette di mais al profumo di burro. Ma non le trovavano da nessuna parte. Ed era normale, non era per colpa della fretta. La realtà era che quei pop corn, lì, non c’erano. Al loro posto solo scatole di pop corn da microonde e un diffusore, in un angolo, intento a spargere aroma di burro fuso e mais ogni 5 minuti. Il caldo torrido e gli spostamenti d’aria provocati dai treni facevano il resto.

 

Parlando con Davide, mentre ci mangiavamo le rosette, mi ha detto che in tutti questi esempi me ne sono scordata uno. Nel mediometraggio animato “Dragonball, la leggenda delle sette sfere” un re vuole recuperare sette sfere magiche per poter esprimere un desiderio: trovare quel boccone perfetto in grado di mandarlo in estasi.

 

Non l’ho visto. Blockbuster non esiste più ma lo troveremo su Prime. Ci faremo due pop corn a microonde e ci godremo il film. Lui seduto sul divano, io seduta sulla banchina della stazione della metro di Madrid.

 




Note 

 

1.        “Morirò, ma questo non ha importanza. Da ieri, dopo le parole di Chabrot, solo una cosa mi interessa. […] Un sapore dimenticato, annidato nel più profondo di me stesso e che, alle soglie della morte, si manifesta come l'unica verità che in vita mia sia stata detta - o messa in pratica. Lo cerco, e non lo trovo.”

 

2.        “Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva subito reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità inoffensive, la sua brevità illusoria, nel modo stesso in cui agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa... Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e del biscotto, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?”

 

3.        Gordon M. Shepherd, Neurogastronomy - How the brain creates flavor and why it matters. 2012 Columbia University press. Tradotto in italiano come catalogo della mostra Food – la scienza dai semi al piatto. Museo di storia naturale, Milano, novembre 2014 - giugno 2015.

 

 

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