Di mimetismo batesiano, ragù vegetale e penne di zucchine.
- lo Staff
- 21 lug
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 22 lug
Qualche sera fa mi sono ritrovata a commentare con amici la pubblicità di una nota marca di passate di pomodoro (originaria di queste parti) che reclamizzava l’inserimento nella loro gamma di prodotti di un nuovo ragù vegetale.
Per noi – emiliani - cresciuti al dogma “del maiale non si butta via niente” capita spesso di guardare con curiosità, e un po’ di reticenza, ai prodotti che imitano l’inimitabile. Non tanto con l’intento di dar per forza giudizi morali ma, diciamocelo, pensare che esista un’alternativa al suino è come per un credente mettere in discussione l’esistenza del proprio Dio.
Detto questo, non tutti sanno che all’inizio della mia vita da cuoca professionista, ho lavorato per diverso tempo in uno dei più prestigiosi ristoranti vegetariani del Paese, pluripremiato e primo ristorante vegetariano stellato Michelin in Italia. Come capita non di rado in questi ristoranti, il rispetto del regime alimentare vegetariano si estendeva anche lo staff. Inoltre, nel ristorante in questione, vigeva una regola: per dare il benvenuto ai nuovi membri della brigata, il loro primo staff meal veniva preparato con un piatto omaggio alla terra d’origine di questi ultimi.
Per farla breve, mi hanno fatto le lasagne di tofu.
So che quello che sto per dire potrà essere usato contro di me in tribunale ma vi garantisco che, se non avessi visto la preparazione coi miei occhi, avrei tranquillamente creduto che quella lasagna fosse state cucinate secondo le ferree regole della tradizione emiliana.
Tornando a noi e allo spot del ragù vegetariano, magistralmente giocato sulla buona vecchia manipolazione psicologica genitoriale “prima di dire che non ti piace, assaggia”, la discussione è inevitabilmente finita sull’interrogativo: “ma perché devi fare una cosa che fa finta di essere un’altra che, peraltro, quasi sempre per scelta, decidi di non mangiare?”
Chi mi conosce o ha già letto qualcosa di quello che scrivo sa che più che avere le risposte, dimoro nel mondo delle domande, però questa cosa mi ha suggerito un ragionamento.
In natura, il mimetismo batesiano è quella meno nota forma di mimetismo che si verifica quando una specie animale sfrutta la sua somiglianza con un’altra assumendone aspetto e comportamenti. Va da sé che la specie imitatrice è più debole di quella imitata e, assumendo sembianze e movenze del più forte, spera di scoraggiare i predatori.
La sopravvivenza di questa specie “imitatrice” è subordinata a due condizioni: la prima - e più ovvia - è che effettivamente esista in natura qualcuno più noto, forte e temuto (nel nostro caso, più desiderato) anche dai propri naturali predatori; la secondo è che questa specie viva nello stesso luogo, cioè condivida con la prima l’habitat.
Se dunque considerassimo il nostro ragù vegetale come un insolito caso di mimetismo batesiano, potremmo dire che, per sopravvivere (per restare in commercio) questi deve farsi mangiare da più persone possibile, compreso chi, abitualmente, si nutre di ragù, che domina l’habitat condiviso, le tavole emiliane.
Sappiamo bene però che, indipendentemente da quali siano le ragioni che la governano, modificare un’abitudine, scalfire e abbattere una resistenza, è tutt’altro che semplice.
Per questo, nell’industria alimentare, il tentativo di avvicinare un nuovo prodotto alle masse - di spiegare, in parole semplici, una novità - ha visto spesso la retorica del linguaggio pubblicitario ricorrere a quella che potremmo definire una catacresi culinaria; l’estensione, cioè, del significato di una parola che evoca una ben precisa idea (un prodotto noto, amato e posizionato sul mercato) per compensare, temporaneamente o definitivamente, una carenza lessicale. Nascono così ad esempio espressioni come il latte o lo yogurt di soya e, appunto, il nostro ragù vegetale. (1)
Ma tralasciamo per un attimo la sfera culinaria, che quando si parla di tavola ci si tappa un po’ a tutti la vena, e ampliamo il campo visivo.
Non accade forse la stessa cosa con le auto ibride, col tessuto non tessuto, con le birre analcoliche? Non è la mente stessa a ragionare così, nel quotidiano e costante rapporto con il mondo che ci circonda? Confrontiamo una cosa nuova con una cosa familiare per renderla meno “ostile”, imitiamo per essere accettati socialmente, e mettiamo in relazione le situazioni con ciò che abbiamo già vissuto per decidere come è bene comportarci.
Non siamo un po’ tutti dei mimetisti batesiani praticanti?
È la fine degli anni 80 quando Ferran Adrià, capocuoco di un bar ristorante in un golf club, progetto spagnolo di due facoltosi coniugi tedeschi, inizia i suoi esperimenti che porteranno a quella che è stata definita la cucina molecolare. Il più grande movimento avanguardista gastronomico mai esistito. Ma è nei tardi anni ‘90 (nel secolo scorso; ma potremmo forse dire “un secolo fa” e percettivamente non sbaglieremmo di molto) che la cucina molecolare inizia a fare capolino sulle prime riviste.
Negli anni, molti chef oggi famosissimi sono passati da quella cucina. Il ristorante El Bulli ha chiuso nel 2010, è stato convertiti in una fondazione e l’edificio in un museo.
Ma in un video di diversi anni fa che ho tentato di ritrovare senza successo (anche se, parafrasando mia nanna, l’internet nasconde ma non ruba, perciò, con un po’ di pazienza sicuramente lo troverete) si può assistere ad un giovane Adrià coi suoi ancor più giovani collaboratori impegnati in un brainstorming sulla pesca melba. Tipico dolce della classicità gastronomica francese attribuito al grande maestro Auguste Escoffier, nelle cucine de El Bulli viene tradotto nella sua versione “molecolare”. Il processo è molto semplice, smontare e ricostruire il piatto. Il significato è lo stesso, i significanti completamente stravolti.
Il titolo del piatto. Gli ingredienti. Le temperature. Le consistenze. I giochi di parole. Vale tutto. La regola è solo una. Destreggiarsi tra strumenti retorici e ingredienti per creare sì stupore, ma consentendo sempre all’osservatore di trovare il bandolo della matassa e ripercorrere a ritroso il filo d’Arianna del ragionamento di fondo.
È cosi, con la retorica intersettiva, inclusiva, sostitutiva, permutativa, contrastiva, accrescitiva o sottrativa che fino agli anni ’10 sono nati piatti (a volte più sperimentali… che gustosi) come i tortellini in brodo, il magnum di foie gras, il bounty di seppia, e adesso chi lava i piatti, sassi commestibili, l’omino michelin di marshmallow, le cozze alla marinara, le lenti a contatto al caffè, lo mezze maniche di prosciutto, torta fritta e aceto balsamico, e tantissimi altri.
Molti anni sono passati da allora e si potrebbe dire senza sbagliarsi di molto che è successo ciò che Miranda Presley nel film cult "Il diavolo veste Prada" aveva mirabilmente e inconfutabilmente sentenziato.
La cucina avanguardista e i suoi esponenti, inizialmente giudicati l’anticristo della verace e generosa tradizione gastronomica delle massaie italiane tutte, una volta santificata dalla critica, è diventata desiderata, cercata, premiata, imitata. Poi, è diventata mainstream e, un po’ come la luna di Loredana Bertè, è rotolata su un buffet aziendale in un bicchiere di champagne, sulle tartine di crosta di parmigiano reggiano soffiato sottoforma di caviale di aceto balsamico; è finita nelle finte olive sulle pizze da asporto e nei fiori eduli del sushi all you can eat in una piazza di una città qualunque.
E alla fine di tutto, è entrata nelle nostre case, convincendo anche i più scettici, quelli che dicevano che molecolare significa chimico (come se addensare una crema pasticcera non lo fosse) quindi nocivo.
Lo ha fatto con le riviste di cucina, con la tv, coi tutorial. Ha cambiato forma e si è adeguata alla maggior attenzione per il bio, per il cibo sano ma soprattutto ha reso più evidente il sentiero che la riporta tra le braccia rassicuranti della cucina italiana tradizionale.
Allora questo non è la forma più opportunista di mimetismo, è metamorfosi.
Ma questa è un’altra storia.
Vi lascio una ricetta che per me rappresenta la summa perfetto di tutto quanto sopra raccontato.
Le penne salmone e zucchine sono state un must della cucina anni ’90. Hanno conosciuto varie versioni, alcune addirittura con l’impiego della panna.
Nel piena filosofia mutuata dalla cucina molecolare (anche se sarebbe più giusto definirla avanguardista) degli anni 2000 del camouflage gastronomico, le penne della ricetta non sono ciò che sembrano. Le zucchine, che dovrebbero essere parte del sugo sono in realtà esse stesse le penne. La quota anni 2020 è invece rappresentata dalla filosofia zero waste. Della zucchina non si butta via niente, nemmeno i gambi.
I cuochi gormet avanguardisti di terza generazione raccolgono la eredità di Adrià anche così. Questo piatto è proposto oggi, in stagione, nei menu di diversi ristoranti più e meno noti.

Con un pelapatate sbucciate leggermente i fusti delle foglie della pianta della zucchina. Con dei tagli diagonali ricavate le finte penne e sbollentatele in acqua salata. Per mantenere il verde brillante, scolatele e raffreddatele subito in acqua e ghiaccio. Saltate il condimento il padella e, da ultimo, aggiungete le penne il tempo sufficiente per farle tornare in temperatura.
ps: mentre scrivevo queste righe, e cercavo il famoso video di Adrià sul melocoton melba, ho tristemente constatato che molte di quelle notizie e di quei nomi sono oggi consegnati all'oblio. Wikipedia, youtube, la pagina dei risultati di google... se non sai cosa cercare, non ti viene riconsegnato quasi nulla di quelle storie. Rimane però molto materiale cartaceo, anch'esso figlio dell'editoria di pregio tardo novecentesca trascinata fino ai primi anni '10 poi finita, a conferma della nostra teoria, in qualche cestone delle offerte di qualche libreria di seconda mano. Se li avete, o li trovate, teneteli cari. A imperitura memoria dell'urgenza che un giorno condusse la cucina a voler parlare non solo alla pancia ma anche alla testa.
Qualche riferimento biblio e video:
siti e video
El Bulli, the last walz (l'ulitmo servizio del ristorante el Bulli) https://www.youtube.com/watch?v=-O3rdlzQVP0
El somni, Celler de can Roca: https://lanuevaola.org/film/el-somni-del-celler-de-can-roca/
La prima e la seconda stagione della serie Netflix Chef's table
testi:
AA.VV. 6 (sei) Autoritratto della cucina italiana d'avanguardia
Ferran Adrià, Albert Adria, Comida para pensar, pensar sobre el comer
Ferran Adrià, Albert Adria, Lessico scientifica gastronomico, le chiavi per comprendere la cucina di oggi
Stefano Calabrese, Retorica del linguaggio pubblicitario
1. In realtà, per molti prodotti vegetali che hanno tentato di mimetizzarsi tra i latticini, pur specificando di non esserlo, la Corte di Giustizia Europea ha stabilito che denominazioni riservate a prodotti di origine animale come “latte”, “crema di latte o panna”, “burro”, “formaggio” e “yogurt” non possono essere legittimamente impiegate per designare un prodotto puramente vegetale.
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