Uno dei libri più citati della storia della letteratura è di sicuro il Piccolo Principe. È finito sulle magliette, sui diari di scuola, scritto sui muri o inciso sulle panchine dei parchi, negli incarti dei cioccolatini e sui bigliettini di auguri.
Citato e stracitato, Antoine De Saint-Exupéry proprio nelle prime pagine se ne esce così: “Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano”. Non lo so... Al di là del monito a non perdere la spensieratezza dell’infanzia (anche se il Piccolo Principe non mi è mai parso che se la vivesse tanto bene...), io mi permetto sonoramente di dissen-tire. Secondo me ci sono cose che abbiamo vissuto da bambini che rimangono nitidamente impresse nella mente del noi adulto e ci riportano all’infanzia ogni volta che le reincontriamo nel corso delle nostre vite.
Mia nonna Maria cucinava e basta. Non c’è un momento passato con lei in cui non ci fosse qualcosa sui fornelli. Magari giocavamo a rubamazzo, mi insegnava a fare una sciarpa ai ferri da calza o un cappellino all’uncinetto, ma se chiudo gli occhi e mi proietto indietro, state pur sicuri che il copione iniziava sempre e comunque così:
INTERNO - CUCINA
sul fuoco una casseruola sobbolle sollevando ritmicamente un coperchio
o una cosa del genere. Forse il ricordo è teatrale, romanzato, ovatta- to, avvolto in una nuvola di rumori, odori e luci fioche di una lampadina a incandescenza senza paralume che pende dal soffitto, ma certo non sbiadito. Quando lei cucinava, io stavo in piedi su una sedia che mi consentisse di arrivare agevolmente al tavolo da lavoro per svolgere - come avrei imparato anni dopo nelle cucine di grandi chef - la dura gavetta. Prima di poter accedere ai segreti della difficile arte di chiudere tortelli e cappelletti, avrei dovuto stendere chilometri e chilometri di sfoglia girando la manovella dell’Imperia. Una delle regole auree che ho carpito osservando avidamente mia nonna Maria, è che i cappelletti devono essere disposti in file ordinate su grandi vassoi di cartone cosparsi di semola. Ma non è tutto.
Tra il momento in cui vengono “piegati” e quello in cui finiscono sul vassoio c’è un breve momento in cui sostano sul tagliere perché la pasta si asciughi quel tanto che basta per renderli meno delicati e più facilmente maneggiabili. L’unità di misura di questo tempo cor-
risponde a quanto impiegano le abili dita della nonna a tramutare in cappelletti una striscia di sfoglia.
Mi seguite fin qua? Bene.
Ora, se visualizzate la scena, c’è un momento in cui l’attività frene- tica fin qui descritta si ferma. Tu non devi ancora tirare una nuova striscia di sfoglia e il tagliere è vuoto, fatta eccezione per i minuscoli cappelletti dorati. Ed è qui che si apre un varco per noi apprendisti. La nonna dovrà procedere nella delicata operazione di trasferire i cappelletti dal tagliere al vassoio e quindi... dovrà darci le spalle. La breccia. È rischioso? Lo so. È folle? Certo. Ne vale la pena? Chiedetelo a qualsiasi bambino emiliano e vi dirà - senza nemmeno pensarci - che la risposta è ancora una e una soltanto. Sì.
Lei fa ricadere con un deciso ma delicato gesto della mano sinistra una decina di cappelletti nella mano destra, a conchiglia, posizionata appena sotto il bordo del tagliere. Poi si gira di spalle e, uno a uno, li sistema ordinatamente sul cartone. Questo vi dà circa dieci secondi per agire. Dovete essere veloci ma precisi. Affamati ma non ingordi. Ciò che rubate deve sparire senza lasciare traccia prima che lei se ne possa accorgere. Il conto è tanto semplice quanto spietato. Il numero perfetto di cappelletti da rubare deve soddisfare le seguenti condizioni: nessun cappelletto deve cadervi dalle mani nel tragitto dal tagliere alla bocca; dovete essere in gradi di mangiarli prima che lei si volti. Se si accorge che deglutite o, peggio ancora, che masticate, per voi sarà la fine; e, ultimo ma non ultimo, dovete avere un grande equilibrio. Non dimenticate che siete in piedi su una sedia. Quando si girerà, la nonna non dovrà percepire la minima oscillazione. Voi da lì non vi siete mai mossi.
Ma è giusto che vi informi delle conseguenze del vostro gesto. Se vi sorprenderà, una sonora mattarellata sulle dita non ve la leverà nessuno.
Ma ecco il mio segreto per voi, e la lezione di vita che ogni storia popolare porta in sé: se sarete abbastanza veloci da ritirare la mano più rapidamente del mattarello e riuscirete a schivare il colpo, non solo la punizione sarà espiata ma... vi sarete guadagnati la stima del-
la nonna. Lei si farà da parte, senza dir niente, e vi farà posto accanto a sé nella postazione di chiusura dei cappelletti.
Buttatevi nella vita, cose stupende vi attendono.
Come dice quella frase attribuita a Steave Jobs (ma che io attribuisco a mia nonna)
“Siate affamati! Siate folli!”
Post scriptum:
Mio nonno Gisberto, classe 1921, pilota di moto e meccanico di due ruote, era un uomo molto ironico. Con lui era difficile capire quando scherzasse e quando invece fosse terribilmente serio.
Ricordo che ogni domenica, davanti al suo piatto di cappelletti in brodo fumante, osservava
i piccoli fagottini d’oro scostandoli con il cucchiaio e, dopo una studiata pausa scenica, diceva:
“Questo l’ha fatto la Maria perché è perfetto. Questo la Maura, che è un po’ grosso. Questo di sicuro la Marta perché è piccolo ma c’è ancora da lavorarci su”. E così via ad elencare tutti quelli che avevano partecipato all’attività frenetica di preparazione del pranzo della domenica.
Insomma, io son sicura che ci fosse una parte di franca critica gastronomica nelle sue parole, ma almeno altrettanta ironia. Anche perché, alla fine, il piatto era sempre vuoto! Fattostà che questo ha ben presto fatto desistere buona parte di noi dal partecipare alla realizzazione della pasta, optando per attività meno soggette a critica come apparecchiare, sparecchiare e lavare i piatti. Io non ho desistito.
Se non tutti i miei piatti sono stati sempre all’altezza di superare a pieni voti la critica enogastronomica, grazie a mio nonno, i miei nervi sì.
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