La saggezza popolare emiliana, e mio nonno, che nei fatti per me sono la stessa cosa, dicono che il letame puzza quando lo spargi, e ogni volta che lo rigiri. Fuor di metafora si può dire che seppur spargere il letame sia un male (?) necessario che però porta a cosa buone, è altrettanto vero che è meglio lasciarlo dov’è, una volta che si è sedimentato.
Per questo ho pensato a lungo se il 1° maggio fosse il caso di uscirmene con un post che tornasse su un argomento che a nessuno piace ricordare. Ma ci sono segnali che alla nostra testa piace spiegare come se avessero un particolare scopo, a conferma – o giustificazione - di ciò che stiamo o non stiamo facendo. Una data ricorrente, la radio che passa una certa canzone, l’ora che segnano le lancette ogni volta che guardiamo l’orologio.
Per me quel segno, quella data, è il 1 maggio. Il compleanno di mio nonno, il giorno della prima apertura e, sei anni dopo, della chiusura definitiva del mio ristorante, e il primo ricordo nitido che ho della sofferenza sorda provocata dalla morte.
Era il primo maggio del 1994. Sono passati trent’anni e quel giorno è uno di quelli in cui succedono troppe cose insieme per accettare che sia un caso.
La Reggiana batte il Milan a San Siro salvandosi la pelle e restando in A, condannando il Piacenza ad una retrocessione in B dopo appena un anno dall'ascesa. Ma niente ha più senso perché quel giorno muore, a Imola, Ayrton Senna.
Vi chiederete perché torno su questa storia dopo la premessa sul letame e dopo essermela cavata abbastanza bene astenendomi dallo scrivere questo post a inizio mese.
Perché ci sono cose – segnali - che arrivano e che non si possono ignorare.
Ieri facevo due passi in libreria e mi sono imbattuta, tra le decine e decine di libri rimessi in pole position sugli scaffali per i 30 anni da quel fatidico giorno, in un titolo che mi ha colpito come mi colpirono alla bocca dello stomaco le immagini di quella monoposto rimbalzare nella curva Tamburello.
“Perdere Senna”, di Giorgio J. Squarcia.
L’ho preso senza neanche leggere il risvolto o il retro di copertina. Perché sì. Perché in quel titolo c’è, nitida e brutale, la sintesi di quello che è stato per me, e per molti, quel giorno. Avevo 12 anni ma da allora, ogni primo maggio porta con sé, da sempre, quel minuscolo ma persistente nodo alla gola. Quel boccone fantasma, come lo definisce la medicina, che torna a intermittenza ogni volta che ci penso.
Ma il libro non è su un eroe per cui la morte, da copione, è la prima regola d’ingaggio. Il libro è sulla sconfitta, lecita o ingiusta non importa, e sulla differenza che fa rialzarsi dopo ogni colpo.
Vi lascio il pezzo che ho scritto più o meno tre anni fa. Parla della domenica, della Formula 1, di Moby Dick. Parla di primo maggio.
(scritto e pubblicato sulla rivista Rewriters nel marzo del 2021)
Mi chiamo Marta, avevo un ristorante che portava il mio nome. La sera di sabato 7 marzo del 2020 ho pulito i fornelli e i banchi della mia cucina, ho ritirato la linea, ho sistemato i frigoriferi, ho tirato lo straccio, ho salutato i ragazzi dello staff, ho spento le luci e ho chiuso a chiave la porta. Non l’ho più riaperta.
Sono cresciuta in un piccolo paese della provincia emiliana - che ora è diventato una città. Era il paese di mio padre dove trascorrevo tutta la settimana, avevo la scuola, gli amici, l’ufficio dei miei genitori dove facevo i compiti al pomeriggio, il fornaio da cui compravo la merenda per la ricreazione, e tutti quei piccoli gesti tranquillizzanti e quotidiani. Routine.
Ma la domenica - la domenica - era tutta un’altra cosa. La domenica si pranzava a casa dei genitori di mia madre, in città.
Ogni volta che mi è stato chiesto di raccontare come mai ho deciso di fare la cuoca, la risposta passava sempre per quelle domeniche.
E di quelle domeniche, fino a un anno fa, avrei detto che ruotavano tutte intorno al cibo, alla tavola, all’odore di bolliti che ci veniva incontro lungo le scale del condominio di mia nonna, al sapore dei cappelletti crudi rubati dal tagliere.
A pensarci oggi, è come se questo virus avesse cancellato gusto e olfatto anche dai ricordi. Ma, per quel misterioso quanto sorprendente meccanismo che il corpo umano è in grado di mettere in atto ogniqualvolta viene mutilato di una delle sue parti o facoltà, troviamo sempre il modo di continuare a vivere, leggendo le cose da una nuova, ritrovata, angolazione.
È come quando diventi cieco, che - dicono – acuisci tutti gli altri sensi, impari a leggere con le dita o a orientarti nello spazio con le orecchie.
Ebbene, quando questa strana cosa che ci è capitata mi ha investita, e quando ho realizzato che non sarebbe stato affatto un accadimento passeggero, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata la Formula1.
Ho cercato una spiegazione. E ho concluso che si trattava semplicemente dello stesso ricordo domenicale, a cui da sempre associo la mia scelta di fare della cucina il lavoro della mia vita, solo rivissuto dopo la mutilazione che mi ha portata a non poterlo più fare. La domenica, senza gusto e olfatto.
Perciò all’improvviso quella giornata del passato è diventata non più la tavola ma il divano, non più la cucina ma il salotto.
Ho recuperato dai ricordi una cosa che ho sempre avuto davanti agli occhi ma che non è mai entrata nell’inquadratura, se non sfuocata, sullo sfondo. Dopo pranzo, mio nonno si alzava e si sistemava in poltrona. Una di noi nipoti gli portava una tazzina di caffè già zuccherato e lui annuiva con un automatico segno di gratitudine, senza nemmeno far caso a chi glielo avesse allungato, con lo sguardo incollato alla tv, occhi fissi sui semafori rossi della linea di partenza.
Ho sempre creduto, prima di oggi, che quelle corse fossero solo un altalenante ronzio di sottofondo intervallato da mugugni di disappunto o grida di eccitazione a ogni imprevisto o sorpasso azzardato.
Ma la mattina di domenica 8 marzo 2020, dopo una notte agitata a pensare alle notizie surreali che la sera precedente avevano fatto scappare in fretta e furia gli ospiti del mio ristorante provenienti da fuori provincia, passeggiando per le strade di una città semideserta in cui, da lì a qualche ora, sarebbe stato intimato alle persone di tornarsene a casa e rimanerci, la prima immagine che mi è saltata in mente è stata quella della safety car:
La safety car è quell’auto che nelle gare di Formula1, in situazioni di pericolo, entra in pista e fa fondamentalmente due cose: rallenta la corsa e raggruppa le vetture.
Tutto questo lo fa, però, senza fermare effettivamente la gara. Il suo compito è aspettare.
Aspettare che le condizioni meteo migliorino, che la pista sia sgombra dai detriti, che si possa tornare a correre.
Quella mattina, e sempre più nei giorni e nelle settimane successive, la sensazione era questa. I giudici di gara avevano mandato in pista la safety car nella corsa che tutti noi stavamo correndo. Noi ristoratori, noi imprenditori, noi persone normali che corriamo ognuno, ogni giorno, la propria personale gara. Tutti noi abbiamo dovuto rallentare.
Noi, alla guida della nostra monoposto, magari non perfetta ma assemblata con cognizione e precisione da uno staff caparbio, affiatato e preparato. Allenamento costante, prove libere e qualifica in griglia di partenza promettenti. L’impressione, condivisa da molti, era quella di aver lavorato duro per un obiettivo non ancora raggiunto; ma quella che stavamo correndo era la gara che potevamo davvero provare a vincere.
E poi, a un tratto, un incidente.
La prima cosa che viene in mente quando sentiamo questa parola è quasi sicuramente l’immagine di due auto che si scontrano ma, a pensarci bene, c’è anche un altro significato che descrive molto chiaramente questa situazione.
Un incidente è una cosa che succede per caso, che succede e basta, è successa adesso ed è successa a noi. Poteva non succedere, ma è successa e ha interrotto l’andamento delle cose.
E come in una gara di Formula1, dove incidentali sono tanto le condizioni meteorologiche avverse quanto uno scontro tra le monoposto, a un certo punto c’è stato bisogno della safety car.
Allora, a distanza di un anno, ci troviamo in una gara che non vogliamo abbandonare (davvero?), ma abbiamo consumato le gomme, abbiamo finito la benzina, e rientrare ai box può comportare una squalifica a opera dei giudici di gara ma anche – e questo pensiero ci prende alla gola - agli occhi di noi stessi, e della nostra squadra.
Perché - e noi tutti lo sappiamo bene - non è mai solo un mondiale piloti. È anche un mondiale costruttori, della scuderia, dei meccanici, dei nostri ragazzi di cucina e di sala. Corriamo per divertire i nostri amici, i nostri ospiti e i nostri tifosi, che hanno provato a sostenerci anche in questa gara senza pubblico.
Non solo. C’è anche un altro fatto, tutt’altro che irrilevante: come in Formula 1, i giri effettuati dietro la macchina di sicurezza contano come giri effettivi percorsi all’interno della gara. In altre parole, il tempo continua a scorrere.
Ma ancora una volta, guardando le cose dal punto di vista alternativo di quel corpo che vuole adattarsi per continuare a vivere, accade una cosa interessante. Il ricompattamento del gruppo annulla i distacchi registrati prima dell’ingresso della vettura di sicurezza e dunque, in un certo senso, permette di avere un’altra possibilità. Di ricominciare, di affrontare la gara con una nuova strategia, magari perché si ha meno tempo di quello che si pensava di avere, meno energie, meno forze, e si rivedono le proprie posizioni.
In questo lento zigzagare per non fare raffreddare le gomme ho avuto modo di pensare, di gestire il dolore, di riorganizzare le priorità e, alla fine, di accettare di avere accolto, prima timidamente poi con entusiasmo, nuovi obiettivi.
Provo a dirlo con Proust: “La stanchezza e la tristezza che provai, non nacquero forse tanto, allora, dall’aver amato inutilmente ciò che già dimenticavo, quanto dal cominciare a star bene con dei nuovi vivi, […] parlare di lei con parole accorate, ma senza sofferenza profonda. Il possibile sopraggiungere di questi nuovi io, il cui nome sarebbe stato diverso dal precedente, mi aveva sempre spaventato, a causa della loro indifferenza verso ciò che amavo. […] Ora, invece, quell’essere tanto temuto e tanto benefico che era semplicemente un io di ricambio, uno dei tanti che il destino tiene in serbo per noi e che nostro malgrado, senza dare ascolto alle nostre preghiere, sostituisce con opportuno intervento a un io davvero troppo ferito, quell’essere mi portava, assieme all’oblio, una sospensione quasi completa della sofferenza, una possibilità di benessere”. [1]
Quando per un momento, la scorsa estate, la safety car si è levata di mezzo e ci è sembrato di poter riprendere a correre, quando siamo riusciti a mettere la testa fuori dall’acqua per respirare come il più pesante dei capodoglio dopo che ha setacciato i fondali in apnea a caccia di calamari per sopravvivere, ho pensato a Moby Dick. Forse non siamo la balena. Forse siamo tutti Achab. E allora, forse, dobbiamo semplicemente accettare che dare la caccia a un capodoglio è solo un’ossessione. Che cambiare l’obiettivo non è fallire, ma è solo decidere di vivere.
Molti anni fa un amico nel suo blog scrisse di come la vita fosse come le cuffiette dell’iPod: per quanto ci sforziamo di avvolgerle per bene, ordinatamente, prima di riporle in tasca, ogni volta che le tiriamo fuori sono aggrovigliate secondo un’equazione indecifrabile.
Ora il mio amico è un grande scrittore di romanzi. Era un giornalista sportivo. Quel blog non esiste più e quell’articolo nemmeno. Neanche quegli iPod esistono più e le equazioni dei fili delle cuffiette sono state risolte con l’invenzione degli AirPods.
Non credo che l’inventore delle cuffiette senza fili avesse come obiettivo quello di risolvere la miglior metafora sulla vita che io abbia mai letto. Credo sia stato un caso. Credo sia stato incidentale. Come le serendipity, quello che trovi quando non lo stavi cercando. Quello che ti capita mentre hai gli occhi fissi sul circuito della gara più importante della tua vita. O forse no.
[1] Mi perdonerà Marcel Proust, ma soprattutto il lettore, se mi sono permessa di fare dei tagli qua e là senza segnalarli. Ho preferito dare la priorità alla facilità di lettura ma, giuro, non ho compromesso il significato profondo del testo che trovate, completo, alle pagine 214 e 215 de Alla ricerca del tempo perduto – Albertine scomparsa, Oscar Mondadori.
Bibliografia:
Perdere Senna, di Giorgio J. Squarcia. Non vi voglio dire niente. Io l'ho divorato. E ho sentito ad ogni parola come se fossi di nuovo là.
Canzoni, di Lucio Dalla è un album del 1996. La prima traccia è un omaggio ad Ayrton Senna. Una canzone non tra le più famose ma molto commuovente, oltre ad essere una riflessione sul mondo delle corse prima e dopo la morte del pilota.
Due spettacoli su Moby Dick molto diversi tra loro ma che mi ricorderò per molto tempo. Entrambi sono stati in cartellone al Teatro Valli di Reggio Emilia. Li ho amati per la loro forza, credo dovuta alla loro "analogicità" che rende tutto così materico, tangibile, vero. Soprattutto gli stati d'animo del capitano Achab che, come Senna, non può smettere di fare ciò che fa. Fino alla fine.
Uno è Moby Dick alla prova di Orson Welles
su Youtube si torva un documentario sulla realizzazione dello spettacolo, avvenuto in tempo di Covid. Inevitabilmente il momento storico è entrato nello spettacolo con tavoli da obitorio e maschere modellate sul volto degli attori per camuffare le ffp2 a testimonianza della caparbietà del teatro di sopravvivere. il covid è passato ma la scenografia e i costumi di scena sono rimasti. Potentissimi.
L'altro è Una tazza di mare in tempesta uno spettacolo che si svolge, attori e spettatori insieme, all'interno di una minuscola stiva di legno di 4 metri per 3 e alta poco meno di 2 metri e mezzo.
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